Dello storico discorso pronunciato lunedì 21 febbraio dal Presidente Putin (storico perché infarcito di riferimenti alla Storia, ma anche perché il leader russo è, piaccia o non piaccia, uno dei rari statisti in una contemporaneità popolata da gnomi politici) mi hanno colpito in particolare le critiche mosse al “predecessore” Lenin, cui viene addebitata la colpa di aver creato dal nulla un’entità statale – l’Ucraina – prima mai esistita. Molti giornalisti nostrani hanno definito “surreali” toni e contenuti dell’arringa: a mio avviso perché l’occidente ha ormai rimosso il passato (persino quello prossimo), vive in un presente bidimensionale e non riesce neppure a concepire scelte e azioni di governanti che non trovino la loro esclusiva giustificazione in un gretto interesse immediato. Avvezzi a scrivere pagine di cronaca, i nostri opinionisti (e gli stessi governanti) blaterano di mission e vision, ma hanno smarrito qualsiasi attitudine ad elaborare una visione a medio-lungo termine, che può fondarsi solamente sull’analisi di ciò che è stato. Il dialogo a distanza con Vladimir Lenin, morto quasi cent’anni fa, risulta perciò incomprensibile, anche se può far sorridere il fatto che le stesse accuse mosse “da destra” dall’omonimo Putin riecheggino quelle all’epoca avanzate al grande rivoluzionario da settori del partito bolscevico (quasi) di liberalismo borghese per aver sostenuto il diritto all’autodeterminazione dei popoli soggetti all’influenza russa. Gli attacchi “da sinistra” di allora erano in realtà espressione di un certo sciovinismo grande russo che coerentemente Lenin avversava, reputando necessario alla costruzione del Socialismo l’instaurarsi di un clima di concordia e volontaria collaborazione fra genti diverse che non può nascere né da un’omologazione decisa a tavolino (auspicata oggidì da settori della sinistra c.d. radicale) né – a maggior ragione – dal predominio imposto da un proletariato nazionale sugli altri. Il progetto concepito dal fondatore dell’URSS si realizzò solamente in parte: a ostacolarne l’attuazione provvidero circostanze concrete – in primis la resistenza polacca e il fallimento dei tentativi rivoluzionari nell’Europa centro-orientale – ma anche, non bisogna dimenticarlo, l’amore-odio provato dai russi nei confronti delle etnie vicine, viste spesso come potenziali minacce all’integrità e allo spirito del grande Paese. Non è dunque un caso che i cittadini della Federazione ammirino ancor oggi Stalin – georgiano, ma “panrusso” – e abbiano rinnegato Lenin, percepito alla guisa di un corpo estraneo alla millenaria tradizione di un Impero autocratico che, anche quando assume le forme esteriori della democrazia, resta tale. L’equiparazione di Lenin a Stalin (entrambi iscritti all’affollato club dei “feroci dittatori” illiberali) portata avanti da certa storiografia occidentale non dimostra nulla, a parte l’ideologismo, la malafede o la cecità di studiosi che pure vanno per la maggiore.
Quanto fin qui detto non implica un giudizio negativo sull’attuale Presidente della Federazione Russa, che i succubi dell’oligarchia del dollaro si compiacciono di etichettare come “criminale” e “assassino”. Interessa piuttosto capire insieme se il giudizio di Putin sull’Ucraina “artificiale” sia corretto e se le sue iniziative odierne siano o meno comprensibili, se non addirittura giustificabili.
I popoli slavi assurgono a soggetti storici con notevole ritardo rispetto alle etnie dell’Europa occidentale: bisogna aspettare il finale del primo millennio per assistere al formarsi di proto-stati, fra i quali primeggia senz’altro il Principato di Kiev che tuttavia con l’Ucraina attuale ha ben poco a che fare. Questo non tanto perché a fondare Kiev furono avventurieri scandinavi, detti variaghi e ben presto mescolatisi con la locale popolazione slava: soprattutto per il nome Rus’ assunto da questo popolo appena affacciatosi – e da protagonista – sulla scena continentale. Kiev è indiscutibilmente la culla della civiltà russa, anche se abbastanza presto il centro del potere emigra dalle fertili pianure occidentali verso i bacini del Volga e del fiume Okà, mentre il paese oggi denominato Ucraina viene scisso in due parti: l’ovest assoggettato alla confederazione egemonizzata dai polacchi e l’est destinato a divenire parte integrante dell’impero russo. A un triste destino di “periferia” (Ucraina significa terra di confine) provano a sottrarsi nel ‘600 i cosacchi, al centro dell’epopea gogoliana di Taras Bulba: più che una guerra d’indipendenza di tipo ottocentesco la loro è però una lotta di retroguardia contro i pan latifondisti polacchi, espressione di una raffinata cultura urbana che i contadini-guerrieri delle steppe considerano del tutto aliena prima ancora che nemica. L’epica rivolta sarà tuttavia soffocata dalla Res publica polacca, la quale andrà ben presto incontro a una drammatica dissoluzione che non muterà la condizione di assoggettamento dei ruteni. Tocca attendere la conclusione della prima guerra mondiale per assistere a nuovi rigurgiti indipendentisti, che si scontrano però con la voglia di rivincita della neonata nazione polacca e poi con la determinazione dei rivoluzionari rossi ad annettersi il futuro granaio dell’Unione Sovietica.
Un popolo senza uno Stato, come ce ne sono tanti, ma per comprendere se malgrado ciò si possa parlare di una precisa identità ucraina (o rutena che dir si voglia) il punto di partenza va individuato nella lingua, che ancora nel diciannovesimo secolo lo slavista Dobrowsky definiva “un dialetto russo”. E’ indubbio che nel corso del tempo una diversificazione fra le due parlate abbia avuto luogo, anche per effetto dell’influsso polacco, ma è opportuno tener conto di un elemento ulteriore. Nelle città dell’ovest, fra cui Leopoli, l’élite urbana è polacca o polonizzata e i letterati del posto si esprimono nella lingua dei dominanti, anche quando trattano affettuosamente temi locali (si pensi all’opera La sposa ucraina di Malczewski, annoverato fra i maggiori poeti polacchi), mentre nella porzione orientale del paese la lingua di letterati e funzionari è il russo: l’ucraino è l’idioma delle masse contadine relegate nelle campagne. Mi si consenta un paragone azzardato: la situazione è abbastanza simile a quella del Friuli preindustriale, dove la marilenghe parlata nei villaggi agricoli si ferma alle periferie delle città (Udine, Cividale e poche altre), all’interno delle quali la lingua di signori e popolani è il veneto.
Nell’Ottocento l’ucraino acquista dignità letteraria grazie all’opera di notevoli poeti come Taras Sevcenko e Ivan Franko, ma i massimi prosatori seguitano a utilizzare il russo: nativo della Rutenia è Gogol, e malgrado le radici ucraine Bulgakov e Vasily Grossman sono ritenuti – e si ritenevano a tutti gli effetti – scrittori russi. Complesso di inferiorità instillato in un popolo da inserire nella categoria engelsiana dei “senza Storia”? Anche sloveni e croati, ad esempio, sbocciano tardi, ma a essi tocca contrapporsi a “padroni” decisamente stranieri (tedeschi e ungheresi), mentre gli ucraini vivono fianco a fianco con genti che parlano lingue intelligibili e che – almeno per quel che riguarda i russi – condividono con loro tradizione storica e fede religiosa. Il tentativo attuato dagli zar di imporre il russo come idioma veicolare non deriva da sciovinismo razzista, ma dalla scelta (che possiamo oggi giudicare miope e ingiusta) di modernizzare e unificare lo sconfinato paese: l’avversione per i “dialetti” è d’altra parte un elemento caratterizzante stati europei sempre più accentrati e burocratici. Quanto alle rivolte che periodicamente si accendono contro il potere imperiale esse hanno piuttosto carattere sociale (e di opposizione all’occidentalizzazione strisciante): mentre sfoderano la spada gli atamani cosacchi professano fedeltà al “legittimo” zar (ingannato dai cortigiani o spogliato ingiustamente del trono), palesando soprattutto la propria incapacità di adattarsi a un mondo in rapidissima evoluzione e sempre meno “libero”. Sbaglierò, ma ho la forte impressione che fino all’altroieri la coscienza di essere ucraini/ruteni non implicasse il rifiuto di appartenere alla più vasta famiglia russa: mutatis mutandis mi viene in mente l’incipit del Pan Tadeusz, in cui il sommo poeta Mickiewicz, fervente patriota polacco, esalta la nativa terra lituana.
Certo una prima frattura fra ucraini e russi emerge con la sorda e feroce opposizione dei primi alla Rivoluzione d’Ottobre (leggersi Il placido Don per credere), seguita negli anni ’30 dalla tragica carestia indotta (credo con dolo eventuale) da uno Stalin deciso a rifondare l’agricoltura e a industrializzare l’URSS a tappe forzate: l’Holodomor, costato un’infinità di morti per fame, è una ferita che non si rimargina facilmente, e il comprensibile rancore induce larghi strati della popolazione ad accogliere favorevolmente l’invasione nazista e a collaborare con i tedeschi, benché sia innegabile che fra tutti i popoli dell’ex Unione Sovietica gli ucraini e i russi bianchi siano quelli più vicini sotto ogni aspetto ai russi propriamente detti. Dopo la vittoria sovietica, d’altra parte, la punizione dei traditori non coinvolgerà un popolo intero, prova ne sia il fatto che a succedere al “Piccolo Padre” sarà l’ucraino Nikita Chruščëv.
Ma come si percepivano gli ucraini prima che il crollo dell’Unione e i successivi sviluppi li rendessero ostili alla vicina Russia? Alla ricerca di una risposta il più possibile obiettiva ho consultato una vecchia e a me cara enciclopedia: la Motta, edita una sessantina di anni fa. La vetustà del volume è una garanzia: negli anni ’50 l’abitudine a contraffare la realtà e piegarla agli interessi del momento era meno diffusa di oggi. Alla voce “Ucraina” trovo scritto: “La popolazione è costituita in maggioranza da Piccoli Russi o Ucraini (80%), i quali tengono alla loro indubbia origine russa e chiamano se stessi preferibilmente Piccoli Russi (o Ruteni) nonché il loro paese Russia meridionale, Russia Minore, Piccola Russia: solo a denti stretti accettano il nome di U. e ucraini d’imposizione straniera (eminentemente tedesca)”.
Stupefacente, non è vero? E’ però chiaro che questa datata descrizione non si attaglia agli ucraini nati nelle ultime decadi del XX secolo, i quali appaiono completamente intossicati da una propaganda fidei che attraverso smartphone elargiti a prezzi (astutamente) politici valica senza problemi i confini nazionali e si sparge ovunque. Le sirene del consumismo e qualche azzeccato slogan pro-democrazia (farlocca, ma che importa?) hanno riempito nel 2014 le piazze di Kiev di giovanissimi automi in perfetta buona fede, che manco si sono accorti della vicinanza di frange nazistoidi: era stato suggerito loro di opporsi all’autoritarismo (purché russo), e al prezzo di parecchi morti l’hanno fatto. Li compiango senza biasimarli troppo: erano vittime ieri e lo sono oggi – ma hanno perso il senso di una realtà che non può essere confinata nel qui e ora neoliberista. L’Ucraina intera è stata persuasa che l’approdo sicuro è nella UE, cioè nella NATO – e questo non poteva che scatenare una reazione da parte della Russia. Oggi due popoli che fino a una trentina di anni fa si reputavano fratelli ed appartenevano a un’unica compagine statale si affrontano sul campo di battaglia: è indiscutibilmente una tragedia, ma le colpe non stanno da una sola parte (quella dello “stupratore” russo). Dopo aver assicurato a un’URSS oramai in liquidazione che non ci sarebbe stata alcuna espansione a est della c.d. Alleanza Atlantica gli statunitensi hanno come al solito tradito gli impegni presi (la “lingua biforcuta” è un loro marchio di fabbrica, come appresero a loro spese i pellerossa) annettendosi via via tutti gli stati dell’Europa orientale e persino le repubbliche baltiche ex sovietiche. Anche dopo il ritiro del collaborazionista Eltsin le risposte di Mosca sono state improntate a tolleranza e cautela: impari era il rapporto di forze, ma quando una rivoluzione colorata eterodiretta – in sostanza un colpo di stato – ha destabilizzato l’Ucraina (2014) la pazienza si è esaurita. Putin diede allora prova di saggia moderazione, riprendendosi la Crimea russofona (e russa) senza sparare un colpo – ma l’incorporazione della penisola provocò l’ira degli americani, che non tollerano opposizioni alla loro sfacciata politica di potenza.
L’odierna crisi nasce proprio dall’acclarata indisponibilità degli USA ad avviare trattative serie, che tenessero cioè conto delle esigenze manifestate con chiarezza dalla controparte. Il categorico rifiuto di concedere alcunché alla Russia si ammanta di nobili principi come quelli di autodeterminazione dei popoli e di non interferenza, peraltro mai rispettati da Washington quando qualche governante asiatico, sudamericano o africano si azzarda a contrastare gli interessi yankee. Quanto alla condanna degli atti di forza essa stona alquanto in bocca a un’élite che mai si è fatta scrupoli di scatenare sanguinosi conflitti sulla base di falsi pretesti (oltre che di abbandonare al loro destino pedine e complici quando non servono più).
A chiunque non sia totalmente obnubilato dalla propaganda mediatica riesce semplice capire per quali motivi la Federazione Russa – indipendentemente da chi sia al governo – non può rassegnarsi alla prospettiva del prossimo ingresso dell’Ucraina in un’alleanza ostile quale è la NATO: Putin ha più volte appalesato i suoi timori, che sono realistici. Per stornare il rischio di un’invasione, che non sarebbe certo la prima, la Russia avverte da secoli la necessità di essere contornata da stati non troppo agguerriti e (se non vassalli, perlomeno) controllabili che sbarrino l’accesso alla grande pianura sarmatica. Questo bisogno può sembrare anacronistico in un’era in cui missili e bombardieri coprono enormi distanze in un’ora o due, ma tocca tener conto del fatto che alla fin fine le guerre si decidono ancora sul terreno e che comunque più si è vicini all’avversario più facile è coglierlo alla sprovvista.
C’è un altro fattore – questo sì psicologico – da prendere in considerazione: se la defezione dei baltici (che non sono neppure slavi) poteva essere messa in conto, il passaggio dell’Ucraina al nemico avvilisce e indigna profondamente l’emotivo uomo russo, che si sente colpito negli affetti più cari dal tradimento di un “popolo fratello”. Il legame con la patria ancestrale è ancora forte, e ricorda i sentimenti provati dai serbi nei confronti del Kosovo, culla della loro nazione.
In questa vicenda sin dall’inizio Joe Biden e i suoi “diplomatici” hanno alimentato le tensioni soffiando quotidianamente sul fuoco: non puntavano a un accordo, ma a provocare l’antagonista spingendolo a un’umiliante resa o a gesti inconsulti. Messo all’angolo dall’intransigenza statunitense Vladimir Putin ha soppesato le poche opzioni sul tavolo, optando infine per l’attacco militare – scelta dolorosa e gravida di pericoli anzitutto per la Russia. Immagino abbia valutato essere questa l’ultima occasione utile per una prova di forza “decisiva”: il via libera occidentale all’ingresso ucraino nella NATO avrebbe chiuso la partita a suo sfavore, e lui ha provato a giocare d’anticipo azzardando una contromossa estrema e clamorosa. Il nervosismo che molti commentatori hanno letto sul volto e nei gesti del leader russo deriva, io credo, dalla consapevolezza di essere entrato per la prima volta in rotta di collisione con la potenza egemone e dalla spaventosa responsabilità assunta. Personalmente non reputavo probabile lo scoppio di una guerra: Vladimir “il terribile” aveva in precedenza sopportato (quasi) senza batter ciglio l’abbattimento di un cacciabombardiere Sukhoi Su-24 a opera dei turchi e le insolenze israeliane nei cieli della Siria; d’altro canto aveva anche invitato a più riprese gli occidentali a non eccedere nelle loro pretese egemoniche.
Alla luce di queste considerazioni rifiuto di unirmi al disinformato coro di esecrazione nei confronti del “dittatore”, anche se provo una profonda compassione nei confronti dei civili inermi e dei combattenti dell’una e dell’altra parte trascinati loro malgrado nel turbine di una guerra fratricida che fa venire in mente quella descritta un secolo fa da Šolokov. Resta da augurarsi che il Fato – più che l’assennatezza umana – ci risparmi una riedizione degli eventi del 1914, quando un susseguirsi di prepotenze, errori e irrigidimenti diede il via a un conflitto che nessuno aveva preventivato, e che seminò lutti e distruzione anche senza bombe nucleari e missili ipersonici.