A conclusione del lungo ciclo neoliberale che si è prolungato nell’attuale compiuta instaurazione della Tecnocrazia, siamo, con conseguente logica stringente, vicini alla fine conclamata della scuola pubblica. La conseguenza è stringente perché la distruzione della scuola pubblica è uno degli architravi della costruzione dell’ecosistema valoriale neoliberale e tecnocratico.
L’attacco alla funzione fondamentale della scuola pubblica si muove su più fronti, ma ovviamente uno tra i più strategici è quello che passa per l’attacco alla classe docente. Ho altre volte sottolineato come il depotenziamento della funzione del docente si ottenga, nel quadro della ristrutturazione neoliberale della didattica e della scuola, intasando la scuola e i docenti con una serie di compiti, mansioni e incombenze che non hanno nulla a che vedere con la didattica. Da ultima, naturalmente, viene l’autonomia differenziata.
In questo contributo mi soffermo sugli aspetti mediatici del discredito della classe docente.
Nelle sue linee essenziali, la strategia è molto semplice. Si getta discredito con una serie di meccanismi, grazie all’utilizzo di una informazione il cui asservimento al modello egemone è già preventivo e completo. Si additano, per esempio, alcuni comportamenti stigmatizzabili, suggerendo velatamente che siano diffusi; quando, parlando di una categoria, quella dei docenti, che assomma in Italia quasi novecentomila lavoratori, l’estensione dovrebbe essere a dir poco prudente. Comportamenti e atteggiamenti negativi vengono attribuiti più o meno tacitamente alla categoria in generale, come dato strutturale, quasi congenito. Nella maggior parte dei casi non lo si afferma esplicitamente, non ce n’è bisogno, è più che sufficiente alludere. Si fa leva sulle pulsioni che provengono dal ceto medio collassato e permeato dall’ecosistema valoriale che promana dagli stessi interessi che hanno fatto a pezzi la scuola pubblica. Il ceto medio impoverito dalle stesse politiche neoliberali, ma lusingato dalle protesi narcisistiche che la Tecnocrazia mette oggi a sua disposizione come contropartita del suo asservimento, da parte sua, lungi dal riflettere sulle cause della propria stessa condizione, trova molto più comoda e funzionale la narrazione secondo cui il problema sia da ricercare nella scuola e il problema di fondo della scuola siano i docenti, che non stanno abbastanza al passo con i tempi, che non sono abbastanza innovativi nella didattica, che non sono abbastanza empatici, che in fondo non sanno insegnare, non sanno appassionare, non sanno valutare. Insomma il modello dominante, mercatista, neoliberale, tecnocratico ha prodotto un ceto medio più povero e anche frustrato, la cui frustrazione, tuttavia, può facilmente essere riorientata verso altri bersagli e tra questi la scuola pubblica occupa un posto centrale.
Del resto le famiglie sono sempre più entrate nella scuola, sull’onda di un scollamento del rapporto tra scuola e società che è stato plasmato curandosi di sgretolare entrambi i soggetti di questo rapporto vitale.
Questa narrazione è reiterata anche da una serie di riviste telematiche che sulla carta sono “di settore” ma ormai completamente permeate da quegli stessi interessi economici e padronali che vogliono finire di affossare la scuola pubblica. Il fatto che a portare avanti la narrazione loro affidata siano riviste teoricamente di settore è ovviamente utile ed efficace, perché questo consente di far passare come neutri e tecnici affondi che rispondono invece ai precisi interessi che hanno assunto il controllo di queste testate.
In questo modo si sottintende che episodi e atteggiamenti estratti abbastanza casualmente dalla cronaca siano esemplificativi della condizione deprecabile della classe docente, e che siano generalizzabili, cioè che possano essere legittimamente attribuiti a molti docenti. Per altro, per radicare il senso della legittimità dell’estensione ci si limiterà a fornire il semplice input. Per il resto non si dovrà far altro che affidarsi alla ressa di commenti che prontamente si innesca quando vengono diffuse le opportune “notizie” presentate secondo la prospettiva richiesta. Così si lavora al discredito, a rinvigorire il quale si chiameraranno in causa anche esternazioni di massima preoccupazione per il fatto che questi insegnanti (e cioè molti insegnanti) stanno in classe, signora mia, con i nostri ragazzi e magari, signora mia pensi, sono gli stessi che dovrebbero insegnare loro l’educazione civica. Giusto per aggiungere il condimento più letale, l’insinuazione che molti docenti non soltanto non siano in grado di insegnare la loro disciplina, ma sono integralmente inadatti al loro ruolo educativo. Questo esteso attacco, oltre che delle succitate riviste “di settore” in realtà perfettamente orientate e funzionali, può spesso avvalersi anche di docenti venuti in voga e innalzati a docenti-scrittori dal mainstream che ruota intorno al mondo della scuola. Questa narrazione si salda con altre manifestazioni concordanti, per esempio con l’indottrinamento mascherato da orientamento al quale sono sistematicamente sottoposte le scolaresche, indottrinamento il cui ruolo chiave si può riassumere in un singolo messaggio: la scuola non è in grado di insegnare le indispensabili “life skills”, che sono tutto ciò che conta per tuffarsi nelle braccia salvifiche del mercato e del merito. Rimando a un successivo contributo l’analisi delle modalità di orientamento/indottrinamento gestite dalle università, che sono state ampiamente colonizzate e sono ormai le prime e fondamentali cinghie di trasmissione dell’ecosistema valoriale tecnocratico.
Restando alla tematica principale oggetto di questo articolo, all’interno del quadro descritto vengono molto volentieri esibite le grandi virtù degli insegnanti mediatici. La narrazione si arricchisce così di un ulteriore elemento strategico funzionale allo screditamento della classe docente: la soppressione del confine tra divulgazione (digitale) e didattica, definitivamente superato dal talento delle figure taumaturgiche al centro dei media digitali. Il rapporto tra i due termini, divulgazione (digitale, per altro, cioè di un tipo particolare) e didattica, infatti, è perlomeno problematico e dovrebbe essere accuratamente esaminato. Ci sono casi di insegnanti che hanno ottenuto un largo seguito utilizzando youtube (per altro anche tra questi ci sono delle differenze, alcuni, per esempio, hanno provato a trasmettere in video le stesse lezioni che fanno in classe; altri offrono una presentazione più adatta alla comunicazione in internet). Questi esperimenti, in linea di massima, si pongono sul piano della divulgazione, non della didattica. Può anche darsi che esistano dei validi spunti didattici, ma certamente l’implicazione non è automatica e la questione meriterebbe un esame serio. Fare didattica significa portare avanti una classe nel corso del tempo con tutto quello che consegue: costruire un rapporto e un terreno favorevole per l’interazione e per gli apprendimenti, motivare allo studio sistematico, educare attraverso le discipline, formare criticamente, occuparsi di tutti e di ciascuno e molto altro ancora. Tutto questo è già difficile farlo a scuola e in classe, dubito che lo si possa fare in video. Abolendo il limite tra divulgazione digitale e didattica, e riducendo la seconda alla prima, si aggiunge un ulteriore tassello all’incessante lavoro di distruzione della scuola pubblica, che passa per lo screditamento dei docenti e della loro funzione pedagogica. Si suggerisce che alcuni insegnanti riescano dove molti falliscono, cioè nell’essere empatici e nel far amare anche discipline ostiche, attingendo a piene mani a un facilissimo armamentario retorico. Ovviamente (si fa per dire) le scuole collaborano, in effetti non senza una certa dose di masochismo, perché sono le scuole stesse a portare con entusiasmo e con zelo i proprio studenti a non pochi one-man-show, con la conseguenza che i docenti tornano nelle classi dovendo, implicitamente ma sostanzialmente, giustificare il fatto che, dopo aver assistito all’evento miracolistico del vero insegnamento, dispensabile da uno solo a masse indistinte di studenti purché connessi, gli allievi dovranno tornare al mondo vero delle complesse mediazioni del gruppo-classe e a modalità didattiche meno caleidoscopiche, più quotidiane e in definitiva più noiose. In tutto questo, detto incidentalmente, la rimozione della noia dall’orizzonte pedagogico svolge a tutti i livelli un ruolo fondamentale. Laddove una certa dose di noia è indispensabile allo sviluppo della fantasia, e quindi anche del pensiero, la noia diviene un disvalore, dunque un vuoto da riempire ad ogni costo. A tutto questo provvede il capitalismo digitale con giocattolini che dispensano un flusso continuo di intrattenimento che sta atrofizzando l’introspezione sottraendole ogni spazio, oltre a ingenerare diffuse manifestazioni patologiche negli adolescenti e nei pre-adolescenti. Il corrispettivo didattico è rappresentato dalla didattica “innovativa”, e dal suo indotto, che però è l’ombrello sotto il quale viene giustificata una rimodulazione antropologica del rapporto tra docente e discente, nella quale il secondo è cliente e il primo di conseguenza un cameriere-intrattenitore al quale non è consentito il lusso di essere “noioso” perché deve appassionare. E certo che un insegnante debba anche interessare, ma i termini reali vengono interamente ridefiniti, perché non è affatto vero che la passione per una disciplina non passi per una certa quota di noia, cioè per lo studio rigoroso, per la fatica insita nell’acquisizione di un metodo, per la paziente stratificazione delle conoscenze. Perciò bando ai noiosi, che in realtà non sono capaci ad insegnare. Gli insegnanti mediatici sono in realtà i veri insegnanti, quelli davvero capaci, diversamente dai molti che li criticano perché, è facilissimo capirlo, invidiosi del loro successo, secondo quanto previsto dal dispositivo di silenziamento conformista, per cui se sei critico nei confronti dell’ecosistema valoriale imposto, è perché sei invidioso. Come per i Maneskin in campo musicale, insomma.
Come detto altre volte, la partita non è solo economica, ma anche antropologica. Si mira a ridefinire il rapporto docente-discente, puntando a rivolgersi direttamente al secondo rendendo inoffensiva la mediazione del primo. In quest’ottica sono perfettamente funzionali storie di successo individuale da usare in modo funzionale allo scopo primario, nella misura in cui vengono qualificate come le esplosioni geniali delle eccezioni notevoli che devono farsi strada in un sistema fatiscente, quello della scuola fatta da insegnanti poco smart e incapace di occuparsi delle “life skills”.
Fonte foto: inno3 (da Google)